Due Fratelli di Cesare Cantù (1878): Le prime volte i signorini vennero a salutarli fino in tinello, e ordinarono al cuoco che bagnasse loro una zuppa, e ne mescesse una mezzina, ch'essi godevano tra le festive arguzie degli staffieri, spassati da quella agreste semplicità e dalle lodi che que' forestieri danno all'appetitosa fragranza che esala della cucina. Poi a lungo andare i signorini ne presero uggia, e quando il cameriere entra ad annunziare i figliuoli di quel tessitore di campagna, fanno la spallata, esclamando: — Non so cosa dire: il loro padre doveva aver giudizio come l'ebbe il nostro».
Arabella di Emilio De Marchi (1888): In questi discorsi il vecchio affarista stava a sentire la sua voce meno irritata del solito, e preso da una strana commozione, si lasciava spesso intenerire e trascinare a confidenze e ad arguzie, che scoprivano il fondo d'una giovinezza sprofondata da un pezzo, ma non scomparsa, sotto il mucchio degli anni e delle vicende. I preti non gli avevano ancora giocato dei tiri birboni: e senza accorgersi, era vittima anche lui di quel fascino, che piglia l'animo stracco dell'uomo al volgere dell'ultima giornata, quando sazio e seccato delle cose che si conoscono, il pensiero, per un ritorno dello spirito, ricomincia da capo a carezzare delle illusioni.
Il nome della rosa di Umberto Eco (1980): “Lo avete udito ieri. Jorge osservava che non è lecito ornare di immagini ridicole i libri che contengono la verità. E Venanzio osservò che lo stesso Aristotele aveva parlato delle arguzie e dei giochi di parole, come strumenti per scoprire meglio la verità, e che pertanto il riso non doveva essere cosa cattiva se poteva farsi veicolo di verità. Jorge osservò che, per quanto ricordava, Aristotele aveva parlato di queste cose nel libro della Poetica e a proposito delle metafore. Che già si trattava di due circostanze inquietanti, primo perché il libro della Poetica, rimasto ignoto al mondo cristiano per tanto tempo e forse per decreto divino, ci è arrivato attraverso i mori infedeli…” |